Lavoro e GenZ: “non siamo sfaticati”

I nativi digitali vogliono essere protagonisti del loro futuro e ceo dei loro sogni, al contempo, rigettano alcuni stereotipi che li accompagnano nel mondo del lavoro. Di fatto, non vogliono essere definiti una generazione ‘sfaticata’.

Stando ai risultati dall’ultima ricerca di Zelo sul mondo del lavoro, il 41% dei GenZ preferirebbe lavorare in una grande azienda, anche se le multinazionali piene di superuomini e superdonne ‘sempre performanti’ intimoriscono i ragazzi. Inoltre, vorrebbero esser a capo di un’azienda tutta loro, ma quando si tratta di doversi prendere le responsabilità affermano di volerle condividere con il team, o non volersele ‘accollare’ perché generano ansia (60%).

Il lavoro ideale non è scandito da regole, ma da obiettivi

I ragazzi Z vivono nella costante paura del fallimento e del timore del giudizio. Abituati alla gratificazione immediata dei social, per loro i feedback non sono un plus, ma l’ossessione che li guida nei progetti e nelle loro giornate lavorative. Il feedback deve avere con sé un suggerimento o esempio concreto (38%), e un riscontro negativo li porta a dubitare di sé stessi (37%).

La GenZ ha anche bisogno di leader che sappiano motivare e ‘parlino bene di loro’ con gli altri. Non stupisce quindi che affermino di sentirsi gratificati se ricevono complimenti dal capo o i colleghi (60%) o premi in denaro (37%).
Il lavoro ideale? Non è scandito da regole, ma da obiettivi chiari (42%), meglio se nelle prime fasi di onboarding c’è un tutor dedicato (49%. 

Gli amici al lavoro placano la Fomo

Anche sul posto di lavoro, poi, sono alla ricerca di nuovi amici con cui magari fare i Be Real durante la giornata e con cui andare agli eventi post lavoro per placare la Fomo (Fear of Missing Out), la paura e l’ansia sociale di essere esclusi da esperienze ed eventi.

E anche lo smart working si rivela un ‘falso mito’ per attrarre la GenZ, visto che il 39% non lo ritiene fondamentale se il lavoro piace. Al contrario, un 14% pensa che il lavoro da remoto sia ‘indispensabile’ proprio per limitare quell’ansia sociale che questa generazione vive costantemente.
A fronte di una generazione ‘emotiva’, profondamente diversa da quelle che l’hanno preceduta, anche gli Hr devono rivedere i loro modelli operativi.

La recruting journey va ripensata

Occorre infatti che gli ultimi vent’anni sono gli unici in cui hanno vissuto i ragazzi della GenZ e sono anche quelli in cui si è alleggerito sensibilmente il livello di formalità in ogni ambito della vita.

Ad esempio, ‘dare del lei’ è diventato demodé, le chat hanno preso il posto delle panchine e i grandi must di eleganza sono diventati pezzi iconici per le feste in maschera.
La recruting journey va ripensata: dal linguaggio ai cerimoniali di accoglienza, dai job title all’iter di selezione, tutto quello che si fa per ‘sembrare seri’ oggi non convince più.

Lavoro: nel 2024 il 61% cercherà una nuova posizione 

Secondo un’indagine condotta su scala internazionale da Linkedin, circa 6 italiani su 10 (61%) stanno valutando nuove sfide professionali nell’anno in corso. E la principale motivazione è sicuramente la possibilità di un aumento di retribuzione (34%), seguita dalla ricerca di una migliore work-life balance, importante per il 23% dei professionisti nel nostro Paese.

In Italia, sono le donne a farsi da protagoniste della tendenza a esplorare nuove opportunità professionali, con il 66% delle intervistate (56% uomini) che dichiara di valutare o cercando attivamente una nuova posizione.
In questo scenario, la competizione tra professionisti si fa sempre più alta e la capacità di valutare correttamente e ampliare le proprie skill diventa fondamentale.

L’importanza delle skill

Più della metà (51%) dei professionisti dichiara però di trovare frustrante l’attività di ricerca di un nuovo lavoro. Tra le donne, il senso di disagio è più alto (56%) rispetto agli uomini (46%).
Non solo, il 35% delle intervistate non sa come allineare le proprie competenze con quelle richieste per accedere a nuove opportunità professionali, contro il 47% che si sente sicura.

In generale, lavoratori e lavoratrici in Italia sembrano consapevoli dell’importanza delle competenze. Il 74% degli italiani, infatti, considera il re-skilling necessario, percentuale che sale all’80% tra i Millennials.
Le skill ritenute più importanti sono capacità di problem solving (31%), abilità nel comunicare (30%) e conoscenza di una o più lingue straniere (23%).

Voglia di crescita per Millennials, GenZ e Gen X

Se il 55% dichiara di volersi nuovamente concentrare sul proprio percorso di crescita professionale, il dato sale al 58% tra i Millennials, al 56% tra GenZ e GenX per poi abbassarsi al 48% tra i Boomers.
L’attenzione è alta anche per quanto riguarda i metodi di ricerca: il 43% (48% Millennials) ha cambiato strategia per stare al passo con i cambiamenti nel mondo del lavoro. Resta basso, tuttavia, il numero di application ricevute da parte delle aziende di destinazione. Il 43% dei professionisti afferma di ottenere raramente un feedback.

Sembra poi essere diffuso un certo spirito di imprenditorialità: il 56% sta valutando la possibilità di mettersi in proprio, rimanendo nel proprio settore (19%), cambiando campo (15%), o trasformando la propria passione in un lavoro vero e proprio (22%).

Il punto di vista degli HR

Il 62% degli hiring manager ritiene che nel 2024 i datori di lavoro avranno maggiore capacità di negoziare con i candidati. Tuttavia, il 39% dei responsabili delle assunzioni prevede un aumento del tasso di turnover e il 55% sottolinea la difficoltà di trovare candidati qualificati.

Il 31% degli intervistati ritiene, come riporta Adnkronos, che fornire programmi interni di apprendimento e sviluppo (L&D) centrati, ad esempio, sull’AI generativa sia fondamentale per trattenere i talenti più qualificati.
Più nel dettaglio, secondo il 71% degli intervistati i dipendenti della GenZ hanno bisogno di ulteriore supporto per sviluppare le soft skills (come comunicazione, collaborazione, negoziazione), nonostante per il 76%8 degli hiring manager siano i più aperti all’adozione di nuove tecnologie, come l’AI.

Giovani e lavoro: sì, ma smart, sostenibile, con più tempo per sé

Nelle nuove generazioni l’atteggiamento verso il lavoro è differente. Flessibilità di orari, smartworking, welfare aziendale, possibilità di conciliare i tempi di vita-lavoro e sostenibilità, oltre a carriera e aspetti economici, per loro sono gli aspetti più importanti dell’attività lavorativa.
Tanto che dalle survey del centro ricerche Aidp (Associazione italiana direzione personale) emerge che le dimissioni volontarie hanno riguardato nel 70% dei casi giovani tra 26 e 35 anni.

“Le motivazioni di questo fenomeno sono state migliori condizioni di lavoro in termini di flessibilità di orari e modalità di lavoro”, spiega Matilde Marandola, presidente nazionale Aidp, all’Adnkronos/Labitalia. Infatti, nel 57% dei casi le aziende hanno difficoltà a trattenere o assumere personale se non viene garantito lo smartworking.

L’identikit del lavoro “tipo”

Il lavoro ideale per i giovani deve garantire il work-life balance declinabile nella possibilità di fare smartworking e uno stipendio adeguato non solo alle competenze, ma anche coerente con il costo della vita.
Inoltre, “un ambiente di lavoro aperto alle novità, quindi innovativo, tecnologico, in cui i giovani possano sentirsi liberi di esprimere le loro idee senza timore e in cui possano apportare, in maniera pragmatica, un valore aggiunto”, aggiunge Marandola.

Anche secondo Rosario Rasizza, presidente Assosomm e ad Openjobmetis, “il tema della conciliazione di tempi ed esigenze tra vita e lavoro è sempre più al centro dell’attenzione, non solo dei giovani”.
Riscoprire l’importanza di coltivare relazioni e passioni, anche al di là della vocazione professionale, è un’eredità della pandemia.

La risposta delle aziende

Dal canto loro, le aziende mostrano disponibilità nei confronti delle esigenze dei giovani. All’interno delle organizzazioni oggi si ascolta di più.
“Si stanno affermando forme di lavoro sempre più inclusive, socialmente responsabili e sostenibili – continua Marandola -. Gli Hr oggi sono più aperti al dialogo e all’ascolto e credo che questo cambiamento rappresenti, in un’ottica sia sociale sia lavorativa, un’importante svolta”.

E per Rasizza, le aziende “si stanno sempre più allineando, come dimostrano le richieste da parte delle nostre aziende clienti che spesso ci chiedono consulenza in tal senso. Qualche volta, rileviamo qualche resistenza nel prendere in considerazione misure più flessibili e inclusive, ma la strada è ormai segnata lungo questo trend”.

Ma a volte serve un po’ di apertura mentale

“Potremmo quasi dire – sottolinea Rasizza – che oggi sono i candidati, e ancor più se parliamo di giovani, a fare un colloquio ai loro potenziali datori di lavoro. È un segno dei tempi, da non far coincidere necessariamente con una scarsa disponibilità all’impegno e al sacrifico. Per contro, mi piacerebbe vedere una maggiore disponibilità di chi entra nel mercato del lavoro a prendere in considerazione opportunità magari non perfettamente in linea con i propri studi o i propri sogni: a volte, serve un po’ di coraggio e di apertura mentale nel costruirsi esperienze che saranno comunque in grado di fortificare hard e soft skill”.

L’IA? Fa parte della quotidianità (anche se non ne siamo consapevoli)

L’Intelligenza Artificiale (IA) è entrata nelle nostre vite da diversi anni e la utilizziamo quotidianamente senza rendercene conto, ad esempio attraverso i nostri smartphone. Negli ultimi tempi, sono emersi strumenti innovativi chiamati “Intelligenza Artificiale Generativa,” come ChatGPT e Midjourney, capaci di creare nuovi contenuti descrivendoli semplicemente.
Questa rivoluzione solleva interrogativi sul nostro rapporto con le macchine, sempre più creative, e sul tipo di società che ci troveremo ad affrontare. La nuova edizione dell’Osservatorio Nuove Tecnologie di Ipsos, in collaborazione con Vincenzo Cosenza, approfondisce proprio il tema dell’Intelligenza Artificiale e della GenAI.

Gli italiani conoscono il tema e le app “intelligenti”

Dalla ricerca emerge che, tra i vari temi tecnologici, l’Intelligenza Artificiale è l’argomento più conosciuto, con un aumento significativo nella conoscenza delle app di AI Generativa. I livelli di fiducia nella GenAI sono discretamente alti, ma c’è una richiesta di maggiori garanzie e normative, soprattutto per quanto riguarda la veridicità delle risposte e la trasparenza nelle fonti utilizzate per generare il contenuto.

Nell’ambito lavorativo, si registrano sentimenti contrastanti sull’impatto della GenAI. Tuttavia, c’è una maggiore propensione a intraprendere percorsi di formazione per acquisire competenze digitali, specialmente tra i più giovani.

ChatGPT di OpenAI è l’app di GenAI più famosa

ChatGPT di OpenAI risulta essere l’app di GenAI più conosciuta, probabilmente a causa della sua maggiore esposizione mediatica e della sua interfaccia user-friendly. Recentemente, la notizia del ritorno di Sam Altman come Amministratore Delegato di OpenAI ha attirato l’attenzione, evidenziando le dinamiche aziendali.

L’utilizzo dell’AI Generativa è prevalente a fini personali e creativi, seguito dal lavoro e studio. Tuttavia, sorgono preoccupazioni riguardo alla perdita di posti di lavoro e alla minaccia per la creatività.
Gli italiani, pur mostrando fiducia nell’IA Generativa, sono consapevoli dei rischi e propensi a intraprendere percorsi di formazione.

Sfide e opportunità

Guardando al futuro nel 2040, gli intervistati si dividono sul ruolo degli automi dotati di AI: alcuni prevedono un utilizzo limitato a settori specifici, mentre altri immaginano una rivoluzione nella forza lavoro umana. Le previsioni suggeriscono che l’IA avrà un impatto significativo in settori come la medicina, l’automazione industriale, l’assistenza virtuale e la sicurezza.
In conclusione, la presenza dell’Intelligenza Artificiale nelle nostre vite è sempre più evidente, e il futuro ci presenta sfide e opportunità legate a questa tecnologia in continua evoluzione.

Scuola e famiglia, che rapporto c’è oggi?

Che rapporto c’è oggi tra il sistema scolastico italiano e le famiglie? Per scoprire qualcosa in più in merito a questa relazione, si può far riferimento all’analisi annuale dell’Osservatorio sulla didattica digitale, derivanti dallo studio “Junior 2023” condotto da BVA Doxa in collaborazione con MyEdu. Dai dati emerge che sei famiglie su dieci sono preoccupate per l’istruzione dei loro figli, anche se la tendenza indica una leggera diminuzione rispetto allo scorso anno scolastico. La scuola è considerata moderna/innovativa dal 25% delle persone intervistate e efficace/coinvolgente dal 24%. E cosa pensano i ragazzi? Sognano una scuola senza compiti (soprattutto le ragazze) e 1 su 4 vorrebbe iniziare le lezioni più tardi al mattino.

Il livello di soddisfazione è aumentato dall’anno scorso

Rispetto all’anno scolastico 2021/2022, i genitori sembrano essere un po’ meno preoccupati per il futuro dei loro figli. SI rileva un aumento dell’11% dei genitori che si sentono sereni, anche se rimangono nettamente minoranza rispetto a quelli preoccupati (65%). Allo stesso tempo, aumentano le richieste di attività che rendano lo studio più stimolante a scuola, con il 52% che suggerisce l’introduzione di laboratori tecnologici durante l’orario scolastico. L’introduzione della didattica digitale integrata durante la pandemia ha complessivamente migliorato la percezione dell’alleanza tra scuola e famiglia. Il 46% dei genitori dichiara un miglioramento (molto o abbastanza), mentre il 39% rimane neutrale. In generale, i genitori dei ragazzi della scuola secondaria e quelli residenti nel Nord Est apprezzano maggiormente questi miglioramenti.

Dati allineati per ogni tipologia di scuola e area geografica

La soddisfazione per il livello di innovazione della scuola dei propri figli è in linea con questo quadro: il 42% dei genitori si dichiara molto o abbastanza soddisfatto, mentre il 47% si colloca a un livello di soddisfazione intermedio. Questi risultati sono trasversali alla tipologia di scuola e all’area geografica.

Materie preferite e strumenti per la didattica 

Per quanto riguarda il punto di vista dei ragazzi sulla scuola, la materia preferita rimane la matematica, ma l’arte sorprendentemente raggiunge il terzo posto, subito dopo l’italiano. I ragazzi sognano una scuola senza compiti, e questo desiderio è più forte tra le ragazze rispetto ai ragazzi. Per i genitori, il computer è preferito al tablet come strumento per supportare l’efficacia della didattica (37%), seguito dal tablet (20%), mentre la LIM (Lavagna Interattiva Multimediale) si colloca molto distante al terzo posto con l’11%. I computer e gli smartphone sono considerati più validi dai genitori dei ragazzi della scuola secondaria. Ma come sarebbe la scuola ideale per i ragazzi? Il 43% vorrebbe una scuola senza compiti, il 25% pensa che dovrebbe iniziare più tardi, il 20% ritiene che la scuola dovrebbe essere dotata di più strumenti tecnologici come computer e tablet, e infine il 19% vorrebbe una scuola senza esami.

Nei prossimi 5 anni quasi 3 milioni di occupati andranno in pensione

Con la legislazione vigente nei prossimi 5 anni quasi il 12% degli italiani lascerà definitivamente il posto di lavoro per aver raggiunto il limite di età. La stima è dell’Ufficio studi della CGIA, che ha elaborato i dati del Sistema informativo Excelsior di Unioncamere e Anpal. In dettaglio, tra il 2023 e il 2027 il mercato del lavoro italiano richiederà 3,8 milioni di addetti, di cui 2,7 milioni (il 71,7% del totale) in sostituzione delle persone destinate ad andare in pensione, e più di un milione di nuovi ingressi (il 28,3% del totale) saranno legati alla crescita economica prevista in questo quinquennio. 
Dei 2,7 milioni di addetti che nei prossimi anni scivoleranno verso la quiescenza, la metà, poco meno di 1,4 milioni, interesserà i dipendenti privati, oltre 670mila il pubblico impiego, e la stessa cifra il mondo del lavoro autonomo.

Il 91,6% del totale riguarderà il pubblico impiego

Tuttavia, se si calcola l’incidenza della domanda sostitutiva sul totale del fabbisogno occupazionale nelle tre posizioni professionali principali (dipendenti privati, dipendenti pubblici e indipendenti), il valore più elevato, pari al 91,6% del totale, riguarderà il pubblico impiego. Quanto alle filiere produttive/economiche più interessate dall’esodo degli occupati verso la pensione, in termini assoluti sono la Sanità (331.500 addetti), le attività immobiliari, noleggio/leasing, vigilanza/investigazione, altri servizi pubblici e privati (come pulizia, giardinaggio e PA esclusa sanità, assistenza sociale e istruzione), che contano 419.800, e commercio e turismo (484.500).

A rischio i principali settori del Made in Italy

Se, anche in questo caso, si misura l’incidenza della domanda sostitutiva sul fabbisogno occupazionale, i settori che entro i prossimi 5 anni si troveranno maggiormente in difficoltà saranno la Moda (91,9%), l’Agroalimentare (93,4%) e il Legnoarredo (93,5 %). Insomma, i principali settori del nostro Made in Italy rischiano di non poter più contare su una quota importante di maestranze di qualità e di elevata esperienza. Di fatto, il progressivo invecchiamento della popolazione italiana sta provocando un grosso problema al mondo produttivo.

Denatalità e mismatch tra domanda e offerta di lavoro

Da tempo, ormai, gli imprenditori, anche del Sud, denunciano la difficoltà di trovare sul mercato del lavoro sia personale altamente qualificato sia figure professionali di basso profilo. Se per i primi le difficoltà di reperimento sono strutturali, a causa del disallineamento tra scuola e mondo del lavoro in alcune aree del Paese, per le seconde si tratta di opportunità di lavoro che spesso i nostri giovani rifiutano di accettare, e solo in parte vengono ‘coperte’ dagli stranieri. Una situazione che nei prossimi anni è destinata a peggiorare. In primo luogo, per gli effetti della denatalità, e in secondo per la cronica difficoltà a incrociare la domanda e l’offerta di lavoro.

Cercare lavoro, il CV non basta: ci vuole una reputazione on line impeccabile 

Oggi chi seleziona il personale per valutare un’assunzione controlla, oltre il curriculum e le referenze, anche la reputazione online dei candidati. Ecco perchè quando ci si propone a un’azienda o a un selezionatore, è essenziale fare un check anche dei propri profili social, così da evitare passi falsi e intoppi alla propria carriera.

Il profilo del candidato “giusto”

Assumere un nuovo dipendente non è mai una decisione da prendere alla leggera, sia per le piccole imprese che per le grandi. Ecco perché i recruiter effettuano un’analisi dettagliata dei candidati, controllando non solo i curriculum e i colloqui conoscitivi, ma anche le referenze online di ogni candidato. Per questo chi non vuole affrontare costi elevati per la formazione di un nuovo dipendente, o peggio ancora, perdite di produttività o danni all’immagine a causa di un’assunzione sbagliata, si affida ai cacciatori di teste, per assicurarsi di trovare il collaboratore perfetto per la propria azienda. Ed è la ragione per cui recruiter controllano quanto più attentamente possibile i candidati per ogni posizione aperta.

Il valore della reputazione online

Le classiche analisi si effettuano a livello di curriculum vitae e colloqui conoscitivi, a cui si aggiungono il controllo delle referenze dei candidati, e le ricerche online sulle persone che vengono effettivamente prese in considerazione per l’assunzione. Secondo le ultime indagini, a compiere questo ulteriore passo sono circa 8 recruiter su 10, che vanno a controllare la digital reputation dei candidati online, dai motori di ricerca ai social network. E qui le informazioni trovate possono sia favorire, sia allontanare, come accade sempre più spesso, la possibilità di essere assunti.
“Chi si mette alla ricerca di una nuova occupazione deve prepararsi da molti punti di vista: penso per esempio all’aggiornamento del curriculum vitae, a dei corsi di formazione mirati per colmare eventuali lacune, nonché all’allenamento mirato per affrontare al meglio i colloqui di lavoro» spiega Carola Adami, fondatrice di Adami & Associati, società specializzata nella selezione di personale qualificato e nello sviluppo di carriera. “Ma non è tutto qui: sapendo che i recruiter controlleranno molto probabilmente la digital reputation dei candidati, è ormai fondamentale curare anche questo aspetto, per avere la certezza che delle informazioni online non possano compromettere un’assunzione”.

Come muoversi prima di inviare il CV

“Di certo i primi canali da controllare sono quelli dei social network: il consiglio è quello di guardare ai propri account con gli occhi di un recruiter, eliminando o nascondendo delle informazioni, dei post o delle fotografie che potrebbero risultare nocive per il processo di selezione. È buona norma in ogni caso mantenere i propri post personali visibili solo per ristrette liste di amici” sottolinea l’head hunter, aggiungendo che «aiuta moltissimo avere un profilo aggiornato e curato su LinkedIn, volto a mostrare effettivo interesse per il proprio settore lavorativo e per la propria carriera professionale.
Ma non ci sono solo i social. “Pensiamo per esempio ai propri commenti su forum, a un blog gestito in gioventù o ad altre risorse simili: tutto quello che può uscire in prima o in seconda pagina su Google sul proprio conto può fornire informazioni utili, buone o meno, al recruiter. Per questo è importante controllare quali informazioni sono presenti su di noi online, ed eliminare ciò che potrebbe danneggiare la nostra reputazione”, conclude Adami.

I bambini passano troppo tempo sui social: tanto da perdere un notte di sonno a settimana

I bambini, anche quelli piccoli di soli 10 anni, passano troppo tempo sui social media. Tanto da perdere una notte intera di sonno ogni settimana. A fare questo preoccupante conteggio è il professore di psicologia John Shaw, che con il suo team della De Montfort University Leicester ha esplorato il rapporto fra piccoli, social e sonno. La sua ricerca ha coinvolto 60 bambini, tutti di dieci anni, provenienti da diverse scuole del Regno Unito. La media di ore di sonno a notte si è attestata a 8,7, decisamente meno delle 9-11 ore consigliate per quella fascia di età. Nel corso di un’intera settimana, questa carenza si traduce nella perdita di una notte di sonno ogni sette giorni. Dei bambini “testati”, il 70% ha dichiarato di aver utilizzato i social media per più di quattro ore al giorno, con due terzi che hanno affermato di utilizzarli nelle ore subito prima di coricarsi. Ma c’è di più: a disturbare i sogni di questi bambini – oltre alla volontà di rimanere incollati ai loro device il più a lungo possibile – c’era anche la curiosità di vedere cosa accedesse in loro assenza sulle piattaforme social. Tanto che circa il 12,5% dei bambini di 10 anni si sveglia volontariamente nel cuore della notte per controllare le notifiche. 

Più di quattro ore al giorno sui social, soprattutto TikTok

Nella ricerca, è anche emerso che la maggior parte dei bambini intervistati ha ammesso di aver utilizzato i social media per “più di quattro ore al giorno”, con due terzi che hanno affermato di utilizzarli proprio prima di coricarsi. “Il timore di essere estromessi, che è amplificato dai social media, sta influenzando direttamente il sonno dei più piccoli, che vogliono sapere cosa stanno facendo i loro amici – ha spiegato il dottor John Shaw durante un intervento al British Science Festival – Se non sei online quando sta succedendo qualcosa, significa che non stai prendendo parte a quella cosa. Si cade in un loop: chi è ansioso va ancora più sui social media, il che lo rende più ansioso ancora, con un impatto negativo sul sonno”. TikTok ha il maggior coinvolgimento nei bambini intervistati, con il 90% che ha sottolineato di aver utilizzato l’app di notte. Snapchat è al secondo posto con l’84%, mentre poco più della metà ha usato Instagram.

Che fare?

Un numero corretto di ore di sonno è fondamentale per la salute e il mantenimento delle funzioni cerebrali, a tutte le età e a maggior ragione per chi è in crescita. Per questo è importante anche contingentare l’utilizzo dei device e delle app. “È importante stabilire delle routine del sonno” ha dichiarato il professor Shaw. “E’ opportuno spegnere il telefono almeno un’ora prima di andare a dormire. E se proprio devo utilizzarlo, è fondamentale usare un filtro per la luce blu”. 

Il posto di lavoro del futuro: Millennial e Generazione Z chiedono benefit per viaggiare, flessibilità e inclusività

La flessibilità, l’opportunità di viaggiare, la possibilità di contribuire alla realizzazione di progetti mirati e la diversity sono fattori fondamentali per il lavoro ideale. Ecco quali sono le priorità di un ambiente di lavoro “perfetto” post pandemia, espresse da Millennials (26-41 anni) e Gen Z (18-25 anni): lo rivela un recente sondaggio condotto da Hilton, il colosso alberghiero. Dai risultati emerge l’importanza di incontrare nuove persone, di fare esperienza in diversi ruoli e di trovare un equilibrio tra lavoro e vita privata; inoltre, le aziende con forti politiche in materia di questioni sociali e ambientali sono risultate interessanti per l’80% delle persone di età compresa tra i 18 e i 41 anni.

Obiettivo: ambiente professionale inclusivo

L’indagine ha anche rivelato che un luogo di lavoro inclusivo è essenziale per l’84% dei Millennial e della Gen Z. Gli intervistati ritengono che il legame umano abbia sempre più valore in un mondo post-pandemia, con l’88% che apprezza l’interazione sociale sul posto di lavoro. Inoltre, l’87% dei giovani di età compresa tra i 18 e i 41 anni considera le politiche di salute e benessere mentale come un aspetto importante, e il 18% ha anche rivelato di aver pensato di cambiare lavoro nell’ultimo anno a causa delle preoccupazioni per la propria salute e per il proprio benessere mentale.  

Sì al rapporto interpersonale

Inoltre, negli ultimi 12 mesi il 49% dei Millennials e della Gen Z ha preso in considerazione la possibilità di una carriera nel settore dell’ospitalità; inoltre sono prese in considerazione, in ordine di importanza, la possibilità di apprendere nuove competenze (29%), le ampie opportunità di sviluppo personale e di carriera (28%), la varietà del lavoro (28%), l’opportunità di viaggiare (24%) e la flessibilità di dedicare tempo ad altre priorità della vita, come la crescita di una famiglia (23%). La ricerca ha individuato un divario generazionale in merito a ciò che le persone apprezzano quando si tratta di carriera, con la generazione Z che, in una percentuale quasi doppia (22%) rispetto ai millennial (13%), considera rilevanti nella scelta di un lavoro le opportunità di viaggio internazionali. I risultati hanno anche evidenziato che i lavori tradizionali, come il costruttore (5%) o il pilota (8%) sono in calo, rispetto a lavori come il creativo dei social media (17%) o il marketing specialist (18%).

Smart City: un concetto conosciuto dal 50% degli italiani

Il concetto di Smart City è conosciuto da circa metà degli italiani, soprattutto dai giovani. Lo rivela Intel, l’azienda americana che produce dispositivi e semiconduttori, che ha effettuato una ricerca sugli italiani e la Smart City, realizzata con la collaborazione di Pepe Research. Quando si parla di Smart City l’idea è associata a innovazione tecnologica e sostenibilità ambientale. Le caratteristiche fondamentali per una città tech, sono infatti sostenibilità ambientale, sicurezza, efficienza energetica e mobilità intelligente. Tuttavia, dallo studio emerge che le priorità tra le diverse fasce di età che conoscono questo termine divergono. Se i giovani più maturi danno maggiore importanza alla sicurezza, la generazione Z dimostra maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale.

Ma solo il 13% ritiene di vivere in una città abbastanza smart

La mobilità intelligente è più importante, invece, per coloro che vivono in una grande città in cui i problemi di traffico impattano sulla vita quotidiana. Le città italiane dovranno affrontare ancora molti passi per raggiungere il percorso smart al 100%: solamente il 13% dei cittadini ritiene di vivere in una città abbastanza smart. Gli italiani però sono orientati a un futuro Smart City, infatti il 68% crede che la propria città sarà più smart tra 10 anni. Milano è in cima alla classifica delle città più smart d’Italia, con una valutazione 6,2/10, seguita da Bologna e Padova, con 6/10. Seguono Napoli, Genova e Catania, mentre Roma raccoglie una valutazione di 4,3/10. 

C’è ancora molto da fare per l’ambiente e la cittadinanza attiva

“Gli italiani sono legati al loro territorio, tuttavia l’idea della Smart City è effettivamente attraente, con un 60% di cittadini che si dichiara disposto a trasferirsi in una Smart City se si trovasse nella sua regione – ha dichiarato Elena Salvi, Partner di Pepe Research -. Attualmente gli italiani riconoscono un livello di ‘smartness’ alle loro città quando si tratta di economia locale, servizi e mobilità, ma sono convinti che sia necessario ancora parecchio lavoro per quanto riguarda l’ambiente e la cittadinanza attiva. Ora – ha spiegato Salvi – è il momento giusto per portare avanti piani di intervento intelligente sull’ambiente, un elemento fondamentale nel rendere più attrattive le nostre Smart City”.

Lavorare in una Smart City? Sì, se è vicina alla residenza 

La maggioranza dei lavoratori italiani poi, riporta Italpress, sarebbe disposta a trasferire la propria attività lavorativa in una Smart City. Questo, se fosse a mezz’ora di distanza dalla propria residenza (87%), mentre il 57% ha indicato un’ora di distanza, e il 29% sarebbe disponibile a una trasferta di due ore per accedere a uno stile di vita più smart. Ma c’è anche chi è disposto a investire per far diventare la propria città una Smart City. Un concetto che si avvicina all’idea di Smar City è lo smart working. L’idea di smart working ha rivoluzionato le idee degli italiani sia in modo positivo sia negativo. Il 79% infatti apprezza lo smart working e vorrebbe continuare a lavorare in questa modalità, ma ritiene che vadano migliorati alcuni aspetti del lavoro in modalità remota, .